Negli anni ’80 Terry Gilliam scrisse un film, che personalmente amo molto, su un futuro distopico dove documenti, modulistica e Stato sono la dittatura vigente. I palazzi governativi campeggiano imponenti e grigi, i salotti dell’alta società esplodono di colori brillanti, le tubature delle case sembrano quadri di Richter: tutte le spassosissime scenografie di Brazil servono da controcanto a una storia disumana retta sul potere della burocrazia.
Oggi Ken Loach ripropone il tema in Io, Daniel Blake, senza fantasticare. Con la sua solita lucidità accorata, mossa dagli ideali marxisti che l’hanno accompagnato fin dalla gioventù, descrive la parabola di Daniel Blake, carpentiere di New Castle.
Siamo ai giorni nostri in UK. Daniel Blake ha appena avuto un infarto e deve fare domanda per l’indennità di malattia poiché i suoi medici gli hanno vietato di lavorare, ma si trova a fare i conti con una procedura labirintica. Ai giorni nostri in UK non ci sono colori brillanti o tubature alla Richter: tutto è senza fronzoli, senza retorica, senza fantascienza. Il numero di facce di bronzo è direttamente proporzionale al numero di liberatorie e il Web si estende dappertutto con una ramificazione invisibile. La burocrazia non manifesta il suo potere attraverso la grandezza dei palazzi o la violenza delle sue conseguenze: ha l’aspetto di un normalissimo ufficio con moquette, dove normalissime persone educate siedono alle proprie scrivanie e si attengono ai regolamenti. Dall’altra parte, venditori di fumo cercano di convincere un gruppo di disoccupati che la chiave del successo sta nel CV. Questa burocrazia, la burocrazia di oggi, non manifesta affatto il suo potere. Piuttosto sfrutta le procedure silenziosamente: è subdola; è legale e meschina; e di fatto è senza scampo come in Brazil.
“Mi dispiace, non possiamo aiutarla. Deve prima compilare il modulo online.”
“Resti in linea, uno dei nostri operatori le risponderà il prima possibile.”
“Il responsabile della filiale è occupato, non può riceverla al momento.”
Forse di questa nostra società non abbiamo tematizzato abbastanza il potere delle lungaggini (e con “lungaggini” non intendo le cose lunghe e lente – le quali sono essenziali – ma quelle che si tirano per le lunghe forzatamente). Se Terry Gilliam aveva previsto che saremmo stati controllati in ogni gesto (da vedere il nuovo film di Oliver Stone), qui un personaggio realistico quale è Daniel Blake si deve districare fra le fregature tinte di buone maniere con una dose di pazienza ascetica, vivendo come in una gabbia d'aria. Il mondo post-capitalista ha preso coscienza non solo dell’uomo come puntino nella massa (e quindi come consumatore, cosa che comporta la ricerca disperata di dati e abitudini) ma anche come persona (e quindi come individuo isolato, con la sua pazienza, la sua mollezza, la tendenza al gregarismo, le sue rispettive buone maniere e via dicendo).
Io, Daniel Blake è quindi una denuncia chiara e decisa. Ma non è solo questo: è un film avvincente, e il fatto che riesca a tenere gli spettatori appiccicati allo schermo per 100 minuti parlando di assicurazioni, sussidi e indennità è una prova della bravura di Loach. La vicenda, infatti, si snoda attraverso note più lievi, come lo humor tagliente del protagonista (interpretato da un eccellente Dave Johns), l’amicizia che stringe con Katie e i suoi due bambini (altra famiglia disastrata), e dei movimenti di macchina pulitissimi e quasi impercettibili. Non è un caso se il film ha vinto la Palma d’oro allo scorso Festival di Cannes. Chiunque poi si prodighi nella manfrina della scelta "politica" che serve per "lavarsi la coscienza" si guardi il film, se ne guardi altri otto delle ultime stagioni e rifletta se finito il primo non percepisce un senso di compiutezza maggiore (o magari un nodo alla gola).
Il fatto è: chissenefrega dell’intenzione con cui un film ha vinto, almeno ce lo possiamo vedere in sala. Anche nelle piccole città come Verona. Fact.
Oggi Ken Loach ripropone il tema in Io, Daniel Blake, senza fantasticare. Con la sua solita lucidità accorata, mossa dagli ideali marxisti che l’hanno accompagnato fin dalla gioventù, descrive la parabola di Daniel Blake, carpentiere di New Castle.
Siamo ai giorni nostri in UK. Daniel Blake ha appena avuto un infarto e deve fare domanda per l’indennità di malattia poiché i suoi medici gli hanno vietato di lavorare, ma si trova a fare i conti con una procedura labirintica. Ai giorni nostri in UK non ci sono colori brillanti o tubature alla Richter: tutto è senza fronzoli, senza retorica, senza fantascienza. Il numero di facce di bronzo è direttamente proporzionale al numero di liberatorie e il Web si estende dappertutto con una ramificazione invisibile. La burocrazia non manifesta il suo potere attraverso la grandezza dei palazzi o la violenza delle sue conseguenze: ha l’aspetto di un normalissimo ufficio con moquette, dove normalissime persone educate siedono alle proprie scrivanie e si attengono ai regolamenti. Dall’altra parte, venditori di fumo cercano di convincere un gruppo di disoccupati che la chiave del successo sta nel CV. Questa burocrazia, la burocrazia di oggi, non manifesta affatto il suo potere. Piuttosto sfrutta le procedure silenziosamente: è subdola; è legale e meschina; e di fatto è senza scampo come in Brazil.
“Mi dispiace, non possiamo aiutarla. Deve prima compilare il modulo online.”
“Resti in linea, uno dei nostri operatori le risponderà il prima possibile.”
“Il responsabile della filiale è occupato, non può riceverla al momento.”
Forse di questa nostra società non abbiamo tematizzato abbastanza il potere delle lungaggini (e con “lungaggini” non intendo le cose lunghe e lente – le quali sono essenziali – ma quelle che si tirano per le lunghe forzatamente). Se Terry Gilliam aveva previsto che saremmo stati controllati in ogni gesto (da vedere il nuovo film di Oliver Stone), qui un personaggio realistico quale è Daniel Blake si deve districare fra le fregature tinte di buone maniere con una dose di pazienza ascetica, vivendo come in una gabbia d'aria. Il mondo post-capitalista ha preso coscienza non solo dell’uomo come puntino nella massa (e quindi come consumatore, cosa che comporta la ricerca disperata di dati e abitudini) ma anche come persona (e quindi come individuo isolato, con la sua pazienza, la sua mollezza, la tendenza al gregarismo, le sue rispettive buone maniere e via dicendo).
Io, Daniel Blake è quindi una denuncia chiara e decisa. Ma non è solo questo: è un film avvincente, e il fatto che riesca a tenere gli spettatori appiccicati allo schermo per 100 minuti parlando di assicurazioni, sussidi e indennità è una prova della bravura di Loach. La vicenda, infatti, si snoda attraverso note più lievi, come lo humor tagliente del protagonista (interpretato da un eccellente Dave Johns), l’amicizia che stringe con Katie e i suoi due bambini (altra famiglia disastrata), e dei movimenti di macchina pulitissimi e quasi impercettibili. Non è un caso se il film ha vinto la Palma d’oro allo scorso Festival di Cannes. Chiunque poi si prodighi nella manfrina della scelta "politica" che serve per "lavarsi la coscienza" si guardi il film, se ne guardi altri otto delle ultime stagioni e rifletta se finito il primo non percepisce un senso di compiutezza maggiore (o magari un nodo alla gola).
Il fatto è: chissenefrega dell’intenzione con cui un film ha vinto, almeno ce lo possiamo vedere in sala. Anche nelle piccole città come Verona. Fact.