di Giovanna Girardi
Non sono una grande fan del 3D, però - nonostante le critiche - sono una persona aperta e tollerante: cerco di pormi a ogni visione al cinema con una certa verginità. Sono pronta ogni volta a stupirmi.
Con la stessa verginità di sguardo sono andata a vedere The Walk di Robert Zemeckis, in 3D. Il film racconta la folle e miracolosa impresa di Philippe Petit (Joseph Gordon-Levitt), il funambolo che nel 1974 decise di tendere un filo tra le torri gemelle e attraversare l'aria che le divideva.
Ero più che pronta a farmi stupire: Philippe Petit in persona ha presentato il film alla Festa del Cinema di Roma e ha definito questo 3D "funzionale", necessario per comprendere l'esperienza di camminare a 400m su un filo con soli due strumenti: un bastone e l'equilibrio. Critiche e voci di corridoio, poi, sconsigliavano la visione a chi soffrisse di vertigini, promettendo momenti in cui "ti aggrappi alla sedia".
Ebbene, a parte un attimo iniziale, quell'attimo in cui Philippe Petit si sporge per la prima volta dalla Torre Nord, il 3D non mi ha fatto alcun effetto. Proprio nessuno. La camminata, che doveva essere il momento di massimo vuoto sotto i piedi, mi ha lasciato talmente impassibile da chiedermi se effettivamente non andasse qualcosa in me. L'opzione non è da escludere, ma magari neanche lo spunto: ho colto l'occasione per riflettere sulla natura del 3D.
Non so se sia per le tecniche di oggi o per una sostanziale impossibilità del digitale di replicare la realtà, ma l'effetto del 3D è ancora finto. E quando un'immagine è visibilmente finta, la prendiamo con una credibilità giocosa: stiamo al gioco, ma non ci crediamo davvero. Se la famiglia de Gli Incredibili, il film Pixar, vola nel vuoto e cade in picchiata, non ho paura. Non mi dà alcun effetto di ansia, angoscia o vertigini: non è reale. È evidente. La stessa risposta me la sono data per The Walk: l'effetto 3D colorava talmente i capelli e la pelle di Gordon-Levitt, dava talmente inconsistenza a quelle nuvole quasi impressioniste, toglieva quella sua lucentezza al metallo, che forse nella mia testa era tutto un gioco. Divertente, ma un gioco. E, nei giochi, per fortuna, non esistono vertigini.
Se dovessi pensare a un 3D riuscito non sarebbe per conferire a una scena la realtà o per darle i colori della storia, bensì per portare noi spettatori nell'irrealtà di un mondo immaginario. Un esempio, non più recentissimo, primeggia in questo senso: il campione di incassi Avatar.
Nel film di James Cameron il mondo dei Na'vi prende letteralmente vita. La natura fluorescente e cangiante di quel mondo, che non a caso si chiama Pandora, diventa quasi credibile - credibile nella nostra immaginazione, auspicabile tra gli infiniti mondi possibili. Il film dà fisicità allo spazio della fantasia, con tanto di flora, fauna, di alberi della vita e Montagne Fluttuanti: crea dal nulla un immaginario ben preciso. E, dopo aver vissuto nel mondo di questi esseri blu, come in un videogioco sinestesico, esci dal cinema col pensiero che in fondo un avatar lo vorresti pure tu.
Con questa lode non voglio prendermi carico di un'analisi complessa del film, che include una certa dose di soluzioni hollywoodiane trite e ritrite. Ma, oltre alle banali accuse alle mega-produzioni americane, Avatar riesce indubbiamente nell'uso del 3D, che crea, insieme all'atmosfera, un mondo.
Per tornare a The Walk, il film non è brutto, non è privo di spunti. La descrizione e l'analisi del personaggio non sono così superficiali e l'impresa in se stessa dà una base solida e affascinante al racconto. Però, per quanto riguarda il 3D, forse funziona quando dà un orizzonte a un mondo che non ce l'ha, non quando riduce quello di un mondo che già ce l'ha.
Non sono una grande fan del 3D, però - nonostante le critiche - sono una persona aperta e tollerante: cerco di pormi a ogni visione al cinema con una certa verginità. Sono pronta ogni volta a stupirmi.
Con la stessa verginità di sguardo sono andata a vedere The Walk di Robert Zemeckis, in 3D. Il film racconta la folle e miracolosa impresa di Philippe Petit (Joseph Gordon-Levitt), il funambolo che nel 1974 decise di tendere un filo tra le torri gemelle e attraversare l'aria che le divideva.
Ero più che pronta a farmi stupire: Philippe Petit in persona ha presentato il film alla Festa del Cinema di Roma e ha definito questo 3D "funzionale", necessario per comprendere l'esperienza di camminare a 400m su un filo con soli due strumenti: un bastone e l'equilibrio. Critiche e voci di corridoio, poi, sconsigliavano la visione a chi soffrisse di vertigini, promettendo momenti in cui "ti aggrappi alla sedia".
Ebbene, a parte un attimo iniziale, quell'attimo in cui Philippe Petit si sporge per la prima volta dalla Torre Nord, il 3D non mi ha fatto alcun effetto. Proprio nessuno. La camminata, che doveva essere il momento di massimo vuoto sotto i piedi, mi ha lasciato talmente impassibile da chiedermi se effettivamente non andasse qualcosa in me. L'opzione non è da escludere, ma magari neanche lo spunto: ho colto l'occasione per riflettere sulla natura del 3D.
Non so se sia per le tecniche di oggi o per una sostanziale impossibilità del digitale di replicare la realtà, ma l'effetto del 3D è ancora finto. E quando un'immagine è visibilmente finta, la prendiamo con una credibilità giocosa: stiamo al gioco, ma non ci crediamo davvero. Se la famiglia de Gli Incredibili, il film Pixar, vola nel vuoto e cade in picchiata, non ho paura. Non mi dà alcun effetto di ansia, angoscia o vertigini: non è reale. È evidente. La stessa risposta me la sono data per The Walk: l'effetto 3D colorava talmente i capelli e la pelle di Gordon-Levitt, dava talmente inconsistenza a quelle nuvole quasi impressioniste, toglieva quella sua lucentezza al metallo, che forse nella mia testa era tutto un gioco. Divertente, ma un gioco. E, nei giochi, per fortuna, non esistono vertigini.
Se dovessi pensare a un 3D riuscito non sarebbe per conferire a una scena la realtà o per darle i colori della storia, bensì per portare noi spettatori nell'irrealtà di un mondo immaginario. Un esempio, non più recentissimo, primeggia in questo senso: il campione di incassi Avatar.
Nel film di James Cameron il mondo dei Na'vi prende letteralmente vita. La natura fluorescente e cangiante di quel mondo, che non a caso si chiama Pandora, diventa quasi credibile - credibile nella nostra immaginazione, auspicabile tra gli infiniti mondi possibili. Il film dà fisicità allo spazio della fantasia, con tanto di flora, fauna, di alberi della vita e Montagne Fluttuanti: crea dal nulla un immaginario ben preciso. E, dopo aver vissuto nel mondo di questi esseri blu, come in un videogioco sinestesico, esci dal cinema col pensiero che in fondo un avatar lo vorresti pure tu.
Con questa lode non voglio prendermi carico di un'analisi complessa del film, che include una certa dose di soluzioni hollywoodiane trite e ritrite. Ma, oltre alle banali accuse alle mega-produzioni americane, Avatar riesce indubbiamente nell'uso del 3D, che crea, insieme all'atmosfera, un mondo.
Per tornare a The Walk, il film non è brutto, non è privo di spunti. La descrizione e l'analisi del personaggio non sono così superficiali e l'impresa in se stessa dà una base solida e affascinante al racconto. Però, per quanto riguarda il 3D, forse funziona quando dà un orizzonte a un mondo che non ce l'ha, non quando riduce quello di un mondo che già ce l'ha.