di Giovanna Girardi
Da qualche mese provo in sottofondo quella sensazione che chi torna dall’Africa descrive come una nostalgia viscerale, un vuoto dentro che spinge verso il continente. Eppure io, nonostante ci abbia vissuto una ventina di giorni per la Biennale del Cinema di tre anni fa, la provo riferita a Venezia: mi è venuto il Mal di Venezia.
Allora ho usato i film per riallacciare questo cordone ombelicale mancato e crogiolarmi nella saudade alla veneziana (sàudàde da leggere con accenti su tutte le a, cioè “si sono svuotate”). Oltre a Pane e Tulipani, Dieci Inverni e i vari mercanti della città, sono capitata su due lavori del bravissimo (e bellissimo) Andrea Segre. Quasi quarantenne nato nei pressi di Venezia, il ragazzo è uno dei più apprezzati documentaristi d’Italia che vanta almeno dieci titoli, un dottorato in Sociologia della Comunicazione e la partecipazione a festival come il Bif&st e la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Il primo dei due lavori è I sogni del lago salato, uscito a settembre e presentato dallo stesso regista su e giù per l’Italia. A Verona, il Bridge Film Festival ha organizzato l’evento nella chiesa sconsacrata di Santa Maria in Chiavica, uno scenario suggestivo in cui mi sono definitivamente convinta: Andrea Segre è (bello e) bravo.
Allora ho usato i film per riallacciare questo cordone ombelicale mancato e crogiolarmi nella saudade alla veneziana (sàudàde da leggere con accenti su tutte le a, cioè “si sono svuotate”). Oltre a Pane e Tulipani, Dieci Inverni e i vari mercanti della città, sono capitata su due lavori del bravissimo (e bellissimo) Andrea Segre. Quasi quarantenne nato nei pressi di Venezia, il ragazzo è uno dei più apprezzati documentaristi d’Italia che vanta almeno dieci titoli, un dottorato in Sociologia della Comunicazione e la partecipazione a festival come il Bif&st e la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Il primo dei due lavori è I sogni del lago salato, uscito a settembre e presentato dallo stesso regista su e giù per l’Italia. A Verona, il Bridge Film Festival ha organizzato l’evento nella chiesa sconsacrata di Santa Maria in Chiavica, uno scenario suggestivo in cui mi sono definitivamente convinta: Andrea Segre è (bello e) bravo.
Il film è una sorta di “documentario romanzato”: i fotogrammi riprendono la realtà e non ci sono attori, ma la narrazione parte da un paragone che lo stesso regista ha definito “soggettivo”. È il paragone tra il Kazakistan di oggi e l’Italia degli anni ’60, entrambi protagonisti di una crescita economica senza precedenti che vede nel petrolio il minimo comune denominatore. Certo, Italia e Kazakistan sono diversissimi per morfologia, etnografia, storia: il loro accostamento è del tutto libero. Ma fortunatamente l’arte non è scienza, e serve proprio a rompere le equazioni per fare riflettere. Inoltre, la voce-over del regista, che introduce le immagini, ci ricorda implicitamente di essere nella sua idea del mondo.
Dal punto di vista fotografico e visivo, I sogni del lago salato mostra una sapienza perfino musicale: con naturalezza si passa dai visi dei bambini kazaki a quelli di Gela, dai macchinari di Aktau a quelli di Marghera, dal Mar Caspio (il lago salato del titolo) alla Laguna. A unire è la stessa speranza nel futuro che là anima, e qui animava, le persone.
Si susseguono interviste, pause paesaggistiche, immagini di repertorio e i filmini della giovane famiglia Segre, della sua mamma più di tutti, mentre giocano spensierati sulla neve in un’impalpabile e leggera Chioggia invernale. Sarà il mio Mal di Venezia, il senso di spensieratezza storica ormai perduta o l’amore che traspirano, ma mi sono sembrate sequenze commoventi.
I sogni del lago salato, per quante imperfezioni si vogliano trovare, è senza dubbio figlio di un documentarista consapevole e di un regista ispirato. Si può vedere in streaming su Mymovies (che poteva permettersi una recensione più generosa) qui.
Il secondo lavoro è il primo film di finzione del regista: Io sono Li. Lo so, è uscito nel 2011 e sono in ritardo, ma garantisco che col Mal di Venezia me lo sono gustato dall’inizio alla fine.
Dal punto di vista fotografico e visivo, I sogni del lago salato mostra una sapienza perfino musicale: con naturalezza si passa dai visi dei bambini kazaki a quelli di Gela, dai macchinari di Aktau a quelli di Marghera, dal Mar Caspio (il lago salato del titolo) alla Laguna. A unire è la stessa speranza nel futuro che là anima, e qui animava, le persone.
Si susseguono interviste, pause paesaggistiche, immagini di repertorio e i filmini della giovane famiglia Segre, della sua mamma più di tutti, mentre giocano spensierati sulla neve in un’impalpabile e leggera Chioggia invernale. Sarà il mio Mal di Venezia, il senso di spensieratezza storica ormai perduta o l’amore che traspirano, ma mi sono sembrate sequenze commoventi.
I sogni del lago salato, per quante imperfezioni si vogliano trovare, è senza dubbio figlio di un documentarista consapevole e di un regista ispirato. Si può vedere in streaming su Mymovies (che poteva permettersi una recensione più generosa) qui.
Il secondo lavoro è il primo film di finzione del regista: Io sono Li. Lo so, è uscito nel 2011 e sono in ritardo, ma garantisco che col Mal di Venezia me lo sono gustato dall’inizio alla fine.
Shun Li è immigrata dalla Cina e lavora in una fabbrica tessile delle periferie romane per ripagare il debito coi trafficanti. Scrive di frequente lettere a suo figlio, che spera, una volta ottenuti i documenti, la raggiungerà. All’improvviso viene trasferita a Chioggia per lavorare come barista all’osteria Paradiso. Lì, Li incontra Bepi, un pescatore di origini slave, a Venezia ormai da trent’anni e soprannominato dagli amici “Il Poeta”. I due stringono un rapporto delicato e profondo, verosimile al punto che dietro la macchina da presa poteva esserci solo un documentarista.
Anche qui il terzo protagonista è il paesaggio, con la sua Laguna, i pescatori e le dinamiche che muovono una vita di provincia. Tutto è descritto con grazia e realismo, e noi finiamo per essere a Chioggia e dentro l’osteria Paradiso, a tifare per due personaggi che, nonostante le origini, sono uguali a noi. D’altronde, la comunicazione tra culture diverse contraddistingue il cinema di Segre fin dai suoi esordi e sarà oggetto anche del suo secondo film di finzione, La prima neve, meno riuscito del precedente Io sono Li.
In questo caso, mi vorrei soffermare sul titolo, che è un gioco di parole ma sintetizza in brevissimo il punto di vista del film: quello di Shun Li, un’immigrata cinese in Italia la cui vita è interamente nelle mani di qualcun altro. Non può decidere dove andare, quando andarci, cosa fare, non è proprietaria del luogo su cui poggeranno i suoi piedi; è spossessata di se stessa. Può allora lei dire: “Io sono qui”? No, è costretta a dire: “Io sono Li”, e nel frattempo si presenta.
Non so se il gioco di parole sia voluto – difficile che non lo sia, dato quanto è palese. In ogni caso, esprime benissimo la condizione di Shun Li nel mondo, la sua tenacia e il tipo di solidarietà che instaura con l’unica persona a lei davvero vicina.
Io sono Li è realizzato da un paziente osservatore della realtà e tratta senza spettacolarizzazioni il tema dell’immigrazione da un punto di vista umano. Da vedere, oggi più che mai.
Anche qui il terzo protagonista è il paesaggio, con la sua Laguna, i pescatori e le dinamiche che muovono una vita di provincia. Tutto è descritto con grazia e realismo, e noi finiamo per essere a Chioggia e dentro l’osteria Paradiso, a tifare per due personaggi che, nonostante le origini, sono uguali a noi. D’altronde, la comunicazione tra culture diverse contraddistingue il cinema di Segre fin dai suoi esordi e sarà oggetto anche del suo secondo film di finzione, La prima neve, meno riuscito del precedente Io sono Li.
In questo caso, mi vorrei soffermare sul titolo, che è un gioco di parole ma sintetizza in brevissimo il punto di vista del film: quello di Shun Li, un’immigrata cinese in Italia la cui vita è interamente nelle mani di qualcun altro. Non può decidere dove andare, quando andarci, cosa fare, non è proprietaria del luogo su cui poggeranno i suoi piedi; è spossessata di se stessa. Può allora lei dire: “Io sono qui”? No, è costretta a dire: “Io sono Li”, e nel frattempo si presenta.
Non so se il gioco di parole sia voluto – difficile che non lo sia, dato quanto è palese. In ogni caso, esprime benissimo la condizione di Shun Li nel mondo, la sua tenacia e il tipo di solidarietà che instaura con l’unica persona a lei davvero vicina.
Io sono Li è realizzato da un paziente osservatore della realtà e tratta senza spettacolarizzazioni il tema dell’immigrazione da un punto di vista umano. Da vedere, oggi più che mai.